Spazio d'Autore: intervista a Gian Paolo IervolinoBy Edizioni ZEROTREFotografiaIncontriamo Gian Paolo Iervolino, autore del libro fotografico Flowing time. Nato a Roma nel 1976 e cresciuto ad Anzio, Gian Paolo ha sviluppato una certa attenzione per i paesaggi urbani e per le vedute marine, rendendoli spesso oggetto della propria arte sull’esempio offerto dai grandi nomi classici come Henri Cartier-Bresson, Steve McCurry e dal giornalista brasiliano Sebastião Salgado. Alcuni dei suoi scatti sono stati pubblicati su famose riviste fotografiche e sono stati esposti in numerose mostre personali e collettive a Roma. Conosciamolo meglio facendoci raccontare da lui stesso chi è Gian Paolo Iervolino. Sono un “dopolavorista” della fotografia, per parafrasare il grande stand-up comedian Giorgio Montanini che ho avuto il piacere di conoscere personalmente. Dopolavorista perché non faccio della fotografia un lavoro, né una fonte di sostentamento: semplicemente, è per me una bellissima valvola di sfogo e uno strumento per dare vita a “bolle temporali” in cui mi immergo quasi con intento catartico. Quando ha iniziato ad appassionarsi alla fotografia e perché? Il primissimo contatto con la fotografia l’ho avuto al tempo delle medie grazie al mio professore di inglese, che ha avuto la brillante idea di insegnarci le basi e i segreti della camera oscura. Tuttavia, è solo nel 1996 che, da giovane ufficiale dell’esercito, ho comprato la mia prima reflex: una Yashica A109MP con un corredo fotografico di tutto rispetto per quegli anni. Cosa desidera trasmettere con i Suoi scatti? Reputo che la fotografia sia, al pari della scrittura tradizionale, una forma di linguaggio in cui la grammatica viene sostituita dalla tecnica fotografica: faccio riferimento, ad esempio, alla giusta inquadratura, alla composizione ottimale delle luci, ai tempi di esposizione corretti e altro ancora. Ogni immagine va vista come un racconto, come un aforisma. È molto difficile far arrivare al fruitore finale il pensiero che sottende ogni scatto, perché ognuno di noi “legge” l’immagine in base a tantissimi fattori diversi, quali l’estrazione sociale, il background culturale e lo stato d’animo. Quest’ultimo, in particolare, può influenzare così tanto l’individuo da modificarne l’interpretazione della stessa foto a distanza di un paio di giorni, o anche meno. Per concludere, non si tratta di trasmettere un messaggio, ma di suscitare emozioni, positive o negative che siano. «Il senso dei miei scatti è nella reazione stessa che essi sanno suscitare». Ci approfondisce questa Sua affermazione? Se una mia foto riesce in qualche misura a suscitare un’emozione, o semplice curiosità e interesse, allora quella foto ha un senso. Viviamo in un mondo strutturato sulle immagini. Prendiamo, a esempio, Instagram: scrolliamo la home quasi senza alcun interesse reale, aggiungiamo like a foto che sono sicuramente molto belle, ma queste non necessariamente ci restano impresse nella memoria. Io, invece, scatto con l’intimo desiderio che le mie foto lascino il segno. Lei ha affermato che i Suoi scatti sono «tutto ciò che è contenuto nella risposta “niente”». Ci approfondisce anche questo concetto? Credo che ci sia un parallelismo tra i miei scatti e la sintetica risposta – “niente” – che spesso ci affrettiamo a dare a una tra le più intime delle domande: “A cosa stai pensando?”. Come quei “niente” sono a volte non comprensibili nell’immediato, ma ricchi di significati nascosti, così sono i miei scatti. La fotografia è un linguaggio universale: come la descriverebbe a un cieco o a un marziano? Quando ero nel pieno del mio “delirio artistico” ho creato Esperanto Photo Lab, il mio personale spazio di condivisione di progetti fotografici. L’esperanto è una lingua sviluppata alla fine del 1800 da un dottore polacco che aveva il desiderio di unire tutti i popoli sotto un unico idioma. La bellezza della fotografia sta nel poter raggiungere il cuore di chiunque in qualsiasi parte del mondo e, forse, anche dell’universo.Nei casi del non vedente sia del marziano, direi semplicemente che la fotografia è uno strumento con cui si cerca di raccontare quanto ci circonda per poterlo tramandare ai posteri... Un po’ come fanno i “grandi libri”. Quali sono le differenze sostanziali tra una foto a colori e una in bianco e nero? Dobbiamo sempre domandarci cosa vogliamo trasmettere con la nostra foto. Stiamo facendo del reportage, stiamo raccontando una storia d’amore o stiamo illustrando un luogo? Vogliamo semplicemente raccontare o vogliamo evocare? Io ho iniziato con le analogiche sviluppando in camera oscura pellicole in bianco e nero e, si sa, il primo amore non si scorda mai; riconosco, tuttavia, anche il potenziale emotivo di una fotografia con colori ben bilanciati. Lei organizza corsi di fotografia: qual è il primo consiglio che darebbe a un allievo? Ai miei allievi, come prima cosa, insegno che la fotografia è il prolungamento della coscienza del fotografo, come la penna per lo scrittore e il pennello per il pittore. Quindi, il mio primo consiglio è di avere ben in mente qual è il messaggio che si vuole comunicare; in secondo luogo, si deve cercare di rendere lo scatto quanto meno “fraintendibile” possibile. Quale consiglio desidera rivolgere a chi si avvicina alla fotografia per la prima volta? Non abbiate fretta: prendetevi tutto il tempo di cui avete bisogno e, un istante prima di scattare, guardate bene gli angoli della vostra foto; dopodiché, trattenete il respiro al click. Quanto ha inciso la Città eterna nella Sua ispirazione artistica? Con Roma vinci facile: non c’è un angolo della capitale che non sia di ispirazione. Di Roma e su Roma hanno scritto, cantato e dipinto tantissimi artisti anche di caratura mondiale. Ho la fortuna di non viverci, stando ad Anzio, e questa lontananza mi permette di vedere la città quasi esclusivamente come un turista: non sento il peso di tutte le problematiche che chi abita in una megalopoli sperimenta quotidianamente. Ci parli del Suo libro Flowing time. Flowing time è una romantica passeggiata tra le meraviglie di Roma, da Piazza del Popolo a Trastevere, con cui ho reso il mio modestissimo omaggio non solo alla maestosità e all’oggettiva bellezza dei monumenti capitolini, ma anche agli artisti di strada che, con le proprie esibizioni, hanno il potere di aumentare il fascino della Città eterna. Flowing time è nato dall’intima esigenza di esorcizzare il peggiore dei miei demoni: il tempo. È un progetto durato circa quattro anni e ha visto mille varianti tra forme, colori e contenuti sempre diversi. Ho abbracciato la teoria sempre vincente del “less is more” e ho lasciato che il passaggio casuale delle persone disegnasse le mie foto sotto l’occhio vigile e materno della capitale. Come nasce il progetto editoriale? Inizialmente, Flowing time è nato non come libro, ma come progetto fotografico destinato a mostre personali e collettive; è stato poi un mio caro amico a spingermi a farlo diventare un libro presentandomi a Edizioni ZEROTRE. Si ritiene soddisfatto dell’esperienza editoriale intrapresa con Edizioni ZEROTRE? Edizioni ZEROTRE è stata una piacevolissima scoperta. Lo staff è composto da persone molto competenti e disponibili che mi hanno aiutato parecchio in fase di creazione del libro. Il tutto senza dover spendere una fortuna. Posso ritenermi molto soddisfatto e spero di poter collaborare con la casa editrice anche in futuro. Ci racconta un po’ dei Suoi maggiori successi professionali? Il più grande successo in assoluto, che credo sia anche quello a cui ogni artista anela, è stato vedere mio figlio Lorenzo commuoversi guardando i miei lavori. Al netto delle pubblicazioni sulle testate italiane più autorevoli del settore o degli alberghi della capitale allestiti con le mie foto, il più importante dei riconoscimenti è senza dubbio l’emozione palese che certi scatti hanno saputo suscitare. Ci parli di Gian Paolo Iervolino: cosa ci può dire sulla Sua sfera privata? Sono padre di due splendidi ragazzi, Lorenzo e Federico, che crescono troppo velocemente. Mi piace ascoltare le persone e ridere con loro. Amo la musica, anche se non so suonare nulla. E ho qualche scheletro nell’armadio, che però non dà fastidio al cambio di stagione. Ha in programma nuovi progetti? Sì, ho un paio di idee in mente, ma solo riguardo a una ho iniziato a realizzare quello che in cinematografia chiamano “storyboard”, in cui sto inserendo tutti gli elementi che poi andranno a comporre e caratterizzare il progetto stesso. Ho preso spunto da un romanzo italiano assai discusso, nel bene e nel male, che nel 2008 ha vinto un premio importante. La mia è un’iniziativa ambiziosa che si concentra sulle relazioni e sulle difficoltà sociali. Vorrei non aggiungere altro al momento. Altri sviluppi editoriali in programma? Vorrei regalarmi un secondo libro. Vediamo come andranno i progetti che ho in mente. Si congedi con una massima da regalare ai lettori del nostro blog. Quando vi chiederanno qual è la vostra foto migliore, ricordate di rispondere: “Quella che devo ancora scattare!”.