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Già il cognome, Guerra, è impegnativo di suo. Due sillabe che s’arrotano a pronunciarle, agganciate all’immagine evocativa di un suono-bomba. Ma il nome ancora di più, perché chiamarsi Guerra e poi anche Learco non consente divagazioni: ti costringe a rimanere in sella sempre e comunque, in bici e nella vita. Così è stato per il nipote della “Locomotiva umana”, campione mitico di un ciclismo leggendario. Prima nei velodromi come pistard a tutto tondo (velocità, tandem, omnium e chi più ne ha più ne metta) poi come docente di educazione fisica e come tutore della memoria del nonno, Learco Guerra Jr si è caricato sulle spalle una pesante eredità ritagliandosi al contempo uno spazio personale per osservare da una posizione di privilegio il mondo magico delle grandi corse e dei suoi protagonisti. “Era mio nonno” è molto di più di un tributo affettuoso al ricordo di una persona cara. È un libro nato con un duplice intento: rievocare le tappe di una carriera-lampo dalle cadenze straordinarie (nessuno nella storia del ciclismo di vertice ha vinto così tante corse in così poco tempo) raccontando tuttavia anche le vicende dei campioni che Learco Guerra ha forgiato con una generosità e una lungimiranza rimaste uniche. I nomi di Hugo Koblet, Charly Gaul, Carlo Clerici, Rik Van Looy e Vittorio Adorni bastano da soli a fornire alla letteratura sportiva episodi da romanzo. Learco jr. ne ha raccolto gli stimoli evitando di percorrere le strade spianate dell’epica o della retorica. Lo ha fatto correndo sempre in salita lungo sentieri sterrati pieni di curve, privilegiando un percorso che Nonno Learco ben conosceva: quello dell’etica.
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Intervista ad Learco Guerra su Radio Rete 2000 - 05/05/2023
Nessun campione ciclistico ha vinto così tante corse in così poco tempo come Learco Guerra. Una carriera, la sua, cominciata in età ormai matura (26 anni) e vissuta al vertice nell’arco di sole cinque stagioni con picchi clamorosi se si pensa alla maglia tricolore al secondo anno di attività e a quella iridata di campione del mondo al terzo. Una progressione straordinaria favorita da un fisico e da un carattere in totale sinergia: l’appellativo di Locomotiva umana chiarisce da solo un’immagine consegnata al mito in un’epoca in cui il ciclismo, molto più del calcio, era sport di popolo. Learco Guerra ne ha incarnato per la via diretta l’ideale di irriducibile combattente, ben più generoso dell’algido Alfredo Binda che gli era rivale, ed è entrato anche e soprattutto per questo nel cuore delle folle. Ci sono vari modi per raccontare un campione dello sport. Proprio Learco ha avuto in Claudio Gregori e in Marco Pastonesi un tandem di aedi capaci di evocarne le gesta attraverso una scrittura colta e carica di pathos. Learco jr, il nipote, ha scelto invece una strada per tanti aspetti più coraggiosa: quella dell’etica. “Era mio nonno”, la storia non romanzata della Locomotiva umana, regala del campione mantovano un’immagine inedita: c’è il tributo di affetto doverosamente speso per dare spessore al ricordo di una persona cara ma c’è al tempo stesso la rievocazione priva di retorica di una carriera-lampo infittita di successi ma ispirata in ogni momento a concetti imprescindibili di carattere etico. La nostalgia pervade anche nel ritmo della scrittura le prime pagine di un libro scritto di getto in pochi mesi ma meditato in realtà lungo un’intera scansione di vita. Learco jr. ha vestito la maglia azzurra del ciclismo su pista, in gioventù, caricandosi sulle spalle con serietà d’atleta e con una virgola di improntitudine il peso (un fardello, assicura lui!) rappresentato da quel “nome & cognome” che lo obbligava nei velodromi a mettersi costantemente in gioco ben oltre il limite dell’aspetto agonistico. Una scuola di sport diventata ben presto anche storia di vita, fedele in questo a un Dna familiare che aveva portato anche suo padre Gino, pistard di valore, a qualificarsi per le Olimpiadi di Londra 1948. Chiusa la parentesi di pistard, Learco jr. ha assecondato la propria vocazione mettendo a frutto come docente di educazione fisica il diploma Isef conquistato all’Università Cattolica di Milano con un relatore d’eccezione come il prof. Sandro Calvesi. Non ha mai accantonato, tuttavia, l’idea di raccontare la storia del nonno privilegiando gli elementi di carattere umano subito decifrabili in un personaggio totalmente privo di ombre. Quando è arrivato il momento di farlo ha evidenziato un particolare suggeritogli dalla penna di Gianni Brera sottolineando come nonno Learco abbia conquistato in carriera traguardi strepitosi lottando (e vincendo) a dispetto di chi ha cercato di ostacolarne la crescita inserendo nei grandi Giri percorsi pieni di salite ed evitando di privilegiare le sue caratteristiche prioritarie, che erano quelle del passista di straordinaria potenza. Ecco, dunque, la necessità di inquadrare il periodo storico di un ciclismo ormai consegnato alla leggenda evitando però ogni possibile riferimento alla retorica, un canovaccio rispettato da Learco jr. anche nei dettagli grazie a una fluidità di scrittura dal sapiente (e a tratti visibilmente commosso) ritmo evocativo. Non poteva mancare, intuibilmente, il tributo alle figure dei campioni altrettanto leggendari cresciuti alla scuola della Locomotiva umana, da Hugo Koblet a Charly Gaul, da Carlo Clerici a Vittorio Adorni per non parlare di Rik Van Looy, catapultato sullo scenario delle grandi classiche internazionale sfidando le valutazioni di critici superficiali e sprovveduti. Come direttore sportivo, infatti, Learco Guerra ha raccolto allori persino superiori (non debba apparire un paradosso) a quelli collezionati come corridore. Basti pensare alle difficoltà di imporre in Italia un ciclista straniero in un momento in cui lo sciovinismo nazionale, peraltro ampiamente giustificato, esaltava le imprese di Coppi, Bartali e Magni giocando anche dal punto di vista mediatico sulla loro rivalità. L’entrata in scena degli svizzeri Hugo Koblet, trionfatore indiscusso del Giro d’Italia 1950, e Carlo Clerici, vincitore a sorpresa del Giro d’Italia 1954, o del lussemburghese Charly Gaul (due Giri e un Tour per lui), venne accolta come un delitto di lesa maestà. Ma proprio in questi frangenti, come Learco jr. evidenzia, trovò conferma l’adesione della Locomotiva umana ai canoni inalienabili di carattere etico.